Giovanni Anfuso porta in scena a Catania “Il lungo pranzo di Natale”, di Thornton Wilder
Si sono da poco concluse le ultime repliche de “Il lungo pranzo di Natale”, un noto lavoro teatrale scritto nel 1931 dal drammaturgo americano Thornton Wilder, e portato in scena dal regista Giovanni Anfuso a Catania, nelle date 7, 8, 9 e 10 dicembre all’Auditorium (ex mattatoio) di Via Zurria, e dal 15 al 18 dicembre al Castello di via Leucatia. Lo spettacolo, prodotto da Buongiorno Sicilia, fa parte del progetto “Palcoscenico Catania. La bellezza senza confini”.
La missione del teatro è quella instillare empatia nella gente provocando al contempo della riflessioni, grazie alla storia che viene agita, più che raccontata, dagli attori, dagli sceneggiatori e dai registi, ma soprattutto attraverso la catarsi e l’empatia che si instaurano fra attori-personaggi e spettatori. E quale migliore escamotage può aiutare in questo processo se non quella di realizzare uno spettacolo durante il quale attori e spettatori siedono letteralmente allo stesso tavolo?
I protagonisti de Il lungo pranzo di Natale entrano in scena passando da una porta che li introduce nella sala da pranzo, dove seduti al tavolo li aspettano già alcuni commensali, gli spettatori. Dopo aver occupato il loro posto cominciano a interagire tra loro dando voce e corpo alla loro vicenda, che è quella di una famiglia-simbolo benestante, i Bayard, vissuta in America per circa novant’anni, sin dalla fine del diciannovesimo secolo. Novant’anni di Storia che vedono l’espansione dell’industria statunitense alle soglie del ventesimo secolo, le due guerre mondiali e la Grande depressione che culmina nel 1929 con il crollo della Borsa di Wall Street, la ripresa economica nel 1933, la guerra fredda contro l’Unione Sovietica, che inizia nel 1947 e si protrae per un lasso di tempo che continua anche dopo la conclusione della vicenda dei Bayard, durante la quale si succedono ben quattro generazioni.
Ogni anno i membri della famiglia consumano il pranzo di Natale e, con lo stesso entusiasmo con cui condividono le prelibatezze preparate dalla cuoca di famiglia, parlano e gioiscono insieme dei loro sogni e progetti, dei nuovi pargoli che danno linfa vitale alle loro esistenze. Mentre sono immersi nel fiume della conversazione, d’improvviso guardano negli occhi gli spettatori e si raccontano a loro. Tutto questo avviene con immediatezza, come se tutti i commensali fossero una vera famiglia.
Le gioie e i progetti, però, non sono gli unici argomenti sciorinati dai protagonisti durante il pranzo natalizio. Anche i ricordi hanno un ruolo fondamentale nella vicenda. E hanno per i Bayard, come per tutti noi, il sapore di una nostalgia struggente e di un dolce e viscerale attaccamento alle radici. Come le radici del nostro albero genealogico, che con gli anni perde le sue foglie. Durante la pièce si assiste infatti gradualmente alla morte di molti membri della famiglia, i quali escono di scena scomparendo da un’altra porta, diversa da quella che li introduce nella sala da pranzo. L’una simboleggia la vita, l’altra la morte.
Il fiume della vita scorre inesorabile e non è mai uguale. La vita è un fiume che scorre e, come affermava Eraclito, “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”.
I cambiamenti rappresentano per i personaggi di questa storia una luce, quando si parla di progetti e di futuro. Ma sono anche lo spettro da esorcizzare ogni qualvolta essi perdono, o rischiano di perdere, ciò a cui sono più affezionati, che si tratti di un caro estinto, dell’autorità da parte delle vecchie generazioni, in perenne conflitto con le nuove, delle tradizioni, o di costumi e stili di vita. Tutto questo viene fuori durante i novanta pranzi natalizi, dove ai convenevoli e all’allegria si alternano momenti di tensione che invano alcuni membri della famiglia tentano di sedare. Perché è inevitabile che la condizione dell’essere umano oscilli fra i due poli dell’armonia e del conflitto, della risata e la tragedia, fra il desiderio di crescere e andare avanti, e la voglia disperata di trattenere ciò che è destinato a sfuggire alla nostra presa, come un figlio che abbandona il nucleo familiare per trovare il tanto agognato “posto nel mondo”. Non si possono né trattenere, né riattaccare le foglie che cadono da un albero. I personaggi che si dirigono verso la porta che simboleggia morte hanno lo sguardo trasognato di chi narra i ricordi della sua infanzia come se avesse davanti un film che scorre sempre sulle stesse scene felici. Ma la vita non è un fermo immagine. Le stagioni si susseguono come le scene di un film che dura solo una manciata di ore. E alla fine ciò che conta e che ci dà una reale identità sono le scene felici con le persone che amiamo.
Tutto questo è ciò che insegnano, vivono e patiscono i Bayard. Quindi i Bayard siamo tutti noi. Un sonetto di Gigi Proietti insegna che il teatro è il luogo dove tutto è finto ma nulla è falso. Ma a rendere questa pièce più vera del vero, permettendo agli spettatori di identificarsi con i personaggi non sono state soltanto le tematiche affrontate, bensì anche l’originale idea della tavolata composta da attori e spettatori. Ma nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza la maestria e soprattutto la straordinaria sensibilità di tutti gli attori.
Anna Passanisi si è destreggiata nel ruolo della matriarca della famiglia protagonista di questa storia, Mamma Bayard, e in quello della cugina Ermengarde, un personaggio un po’ più ai margini rispetto agli altri, che ha la principale funzione di introdurre le tematiche sociopolitiche che fanno da sfondo alla vicenda dei Bayard. Nel ruolo del figlio della matriarca, Roderick, abbiamo visto Davide Sbrogiò. A vestire i panni della moglie, Lucia, è stata Liliana Randi. A prestare il volto ai due figli della coppia, Jenevieve e Charles, sono stati rispettivamente Chiaraluce Fiorito e Angelo D’Agosta. In questa pièce si sono esibiti anche giovani promesse come Francesco Rizzo, e Greta d’Antonio. I due giovani hanno interpretato il ruolo dei gemelli Lucia seconda, personaggio frizzante e positivo, e Samuel, un personaggio che introduce una tematica che ancora oggi ci riguarda da vicino: la guerra. Sam e Lucia rappresentano l’ultima generazione e sono i figli di Charles Bayard e Leonora Benning, interpretata da Maria Rita Sgarlato. Un altro figlio di Charles e Leonora è Roderick secondo, personaggio che rappresenta più di tutti la ribellione contro le tradizioni e l’autorità, interpretato da Michele Carvello, vincitore della sezione dei corti teatrali del “Catania Off Fringe Festival”, con il corto “Dialoghi fra il Gran Me e il piccolo me”, di Luigi Pirandello. Santo Santonocito ha recitato nei panni del nostalgico cugino Brandon e Ilenia Scaringi è stata la Balia, un personaggio che durante tutta la pièce rimane quasi invisibile.
I costumi e gli elementi scenici portano la firma di Riccardo Cappello, le musiche sono state scelte con sapienza da Paolo Daniele. Delle luci si è occupato Davide La Colla. Hanno lavorato dietro le quinte anche Agnese Failla, come aiuto regista, Francesco Rizzo come assistente alla regia, mentre del suono si è occupato Enzo Valenti.
Dell’organizzazione si è occupato Simone Trischitta, della produzione esecutiva Luciano Catotti e Ninni Trischitta. Ufficio stampa Giuseppe Lazzaro Danzuso.
Nata a Catania nel 1985. Sono un’equilibrista della parola, una drogata di conoscenze e curiosomane irrecuperabile. Amo raccontarmi ma soprattutto raccontare. Ogni storia è un mondo.